In quanti modi si può diffamare?
Sicuramente molti di più di quanto possiate immaginare.
Così, finire “sotto processo” potrebbe non essere così difficile, anche per tutte quelle persone che non si ritengono assolutamente dei delinquenti.
E’ infatti un pensiero abbastanza comune quello secondo il quale insultare sui social, senza far riferimento ad un soggetto specifico, sia sufficiente per evitare di subire importanti conseguenze sul piano penalistico. Ma, non è così.
Questo è quanto ha ribadito la Suprema Corte, sezione V penale, pronunciandosi sull’uso improprio dei social network, con la sentenza n. 33219/2021
Ormai è pacifico in giurisprudenza che la pubblicazione di una frase offensiva su un social network renda la stessa accessibile ad una moltitudine indeterminata di soggetti con la sola registrazione al social network, e che pertanto possa integrare il reato di diffamazione aggravata.
Cosi, la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra la diffamazione aggravata, in quanto si tratta di una condotta che può potenzialmente raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di soggetti. L’aggravante trova quindi la sua ratio nella idoneità del mezzo utilizzato a determinare una rapida pubblicizzazione e diffusione.
E’ altresì stato ritenuto dai giudici configurabile il delitto di diffamazione e non la mera ingiuria aggravata (non punibile penalmente perché depenalizzata) nel caso in cui le offese siano scritte in una chat di gruppo, poiché il messaggio era comunque leggibile da un certo numero di persone all’interno del gruppo, andando ad integrare il requisito della diffusione e della pubblicità.
Nel caso risolto dalla sentenza in commento, un uomo aveva pubblicato sul suo stato di WhatsApp dei contenuti lesivi alla reputazione di una donna, la quale, una volta visto il contenuto e compreso di esserne il soggetto, lo aveva denunciato.
Nel confermare la sentenza di condanna per diffamazione, la Corte ha rilevato l’irrilevanza della possibilità di escludere la visione dello stato di WhatsApp a tutti o ad alcuni dei contatti presenti. Ciò significa che – secondo la Corte – quei contenuti potevano essere visti da tutti i contatti presenti nella rubrica dello smartphone dell’uomo, integrando i requisiti di diffusione e pubblicità ai fini del reato di diffamazione.
Per questo motivo, la pubblicazione di insulti diretti ad una persona individuata o individuabile sul proprio stato WhatsApp integra comunque il reato di diffamazione, alla pari di un messaggio inviato in una chat di gruppo o di un post condiviso sulla propria bacheca di Facebook, e ciò in virtù del potenziale offensivo dato dall’ampia platea di soggetti che ha potuto – o avrebbe potuto – visionare i contenuti.
Chè questa sentenza sia da monito a tutti i c.d. leoni da testiera.